PHILIPPE SOLLERS


Un enciclopedista dei nostri tempi


INTERVISTA CON L'AUTORE FRANCESE Philippe Sollers, che parla del suo impegno contro l'oblio della storia e delle sue prese di posizione sui nodi essenziali della nostra epoca: le biotecniche, la genetica, il rapporto tra i sessi dopo gli anni `70. «Propongo di tornare al dibattito ideologico. Rispetto al secolo dei Lumi, oggi noi siamo in ritardo».
di MARCO DOTTI

Philippe Sollers

 

«In futuro, avremo sempre meno scrittori. Più si pubblica, meno letteratura si ha a disposizione e coloro che gestiscono il sistema editoriale su questo punto non fanno che mentire.» Philippe Sollers non usa mezzi termini, quanto a polemiche e sarcasmo, lui che, a detta dei suoi numerosi detrattori, ai piani alti dell'editoria risiede da una vita. Vivacissimo, sicuro di sé, abituato a farsi attraversare da ogni tipo di critica - «ma restituisco sempre il favore», puntualizza minaccioso - per il suo ultimo libro ha scelto un titolo provocatorio, Poker (Gallimard, 2005, pp. 216, euro 16,90). Provocatorio ma indicativo di uno stile in cui «vocazione alla scrittura e al rischio» si intrecciano con una innata passione per il «doppio gioco» intellettuale e per tutto quanto possa disorientare il lettore o l'avversario, considerati spesso alla stessa stregua. «Scrivere non è obbligatorio», dichiara, ma «se decidete di farlo sappiate che sarete sempre sul filo del rasoio». Alle diciassette in punto, Sollers apre le porte del suo minuscolo studio, al numero 5 di rue Sébastien-Bottin, sede della storica «Nouvelle revue française». Fuma continuamente, ride, poi estrae da una cartelletta, come da un cilindro, una vignetta satirica, ritagliata da chissà quale giornale, che ritrae i volti pallidi e imbarazzati, dopo il no alla Costituzione europea, dei membri del nuovo governo francese. «Le ha viste, queste facce? Capisce adesso perché dichiaro di odiare la miseria?» L'allusione non è immediata, come tutto in Sollers, ma viene da un frammento di Una stagione all'inferno di Rimbaud - «Detesto la miseria. E temo l'inverno perché è la stagione della comodità!» - posto in esergo al suo ultimo lavoro.

Recentemente, sulle pagine di «Le Débat», lei ha ingaggiato una dura polemica contro la liquidazione e la rimozione della storia, concentrandosi sul caso della manualistica scolastica. Ad un certo punto, passando dal particolare al generale, avanza il sospetto che ci si trovi in presenza di una lenta, ma calibrata, operazione di «lobotomia intellettuale». Può chiarire meglio i termini della questione?

Viviamo nella completa dissipazione dei punti di riferimento storici, nella confusione delle date, in una specie di nevrosi intensiva del tempo. La questione è capire cosa significhino questo oblio, questa falsificazione e, infine, questa riscrittura della storia recente che perde il senso stesso del proprio passato. Dal 1960 al 1980, anni in cui nasce e si conclude l'esperienza di «Tel quel», sono successe indubbiamente molte cose, non solo in ambito letterario, ovviamente. C'è stato un periodo, per così dire, più sperimentale, avanguardista, che annunciava una situazione sociale e storica molto precisa, culminata nell'esplosione rivoluzionaria del Sessantotto. Questo periodo seguiva anni di miseria, dove pregiudizi ideologici convivevano con la devastazione portata dalla Seconda guerra mondiale. Si presentava quindi la necessità di attaccare nel cuore stesso le cose, nel cuore stesso ossia nel linguaggio. Non c'erano che macerie e a noi spettava il compito di riappropriarci del linguaggio nei suoi elementi fondamentali e radicali. È in quel preciso momento che appaiono alcuni libri (miei e di altri) e si sviluppano le attività di «Tel Quel», con episodi che sono stati filosofici, politici, sociali al contempo, ma fanno ormai parte della «storia». Però, bisogna continuare a farla, la storia, anche oggi che più nessuno se ne occupa e regna la confusione. Confusione che ci viene soprattutto dagli schemi degli anni `70 e `80, e che consegue alla nuova devastazione seguita al crollo dei rapporti di forza geopolitici. Alla fine degli anni '70, senza che molti «profetologi» come Raymond Aron - che ripeteva in continuazione che l'impero sovietico sarebbe durato a lungo e si sarebbe consumato lentamente, come avvenne per gli Incas - lo sospettassero, il mondo si avviava a un cambiamento radicale, e tutto questo pesava e ancora pesa sulle questioni che si pongono gli scrittori. Come scrittore non mi fossilizzo mai sulla stessa tecnica. Quando ritengo di essere arrivato a un punto di saturazione - si ricordi che nel periodo formalista avevamo a disposizione i lavori di Lacan, Foucault, Derrida, che oggi sembrano scomparsi dall'orizzonte di molti - allora cambio registro, svolto di netto poiché credo che si abbia vera regressione solo se si continua sulla stessa linea, quando i tempi sono mutati. Al contrario, in una epoca dove il pericolo principale è ormai rappresentato dalla crescita dell'analfabetismo funzionale e di ritorno, bisogna passare all'attacco. Il vero problema è la società dello spettacolo, Guy Debord lo aveva compreso per tempo, altri stentano a capirlo ancora oggi.

Nel Cuore assoluto (Bompiani, 1988) lei prende spunto da una frase di Laurence Sterne per riflettere sul rapporto fra scrittura, tempo e desiderio. «Da ciascuna delle lettere qui tracciate», scriveva Sterne, «imparo con quanta rapidità la vita segua la mia penna». Non le sembra, oggi, che i termini del discorso si siano irrimediabilmente capovolti e la scrittura si trovi in una sorta di impasse mimetica e realista, incapace non solo di «precedere» la vita, ma anche di registrarne le pur minime tracce (la «storia», come dice lei)?

La questione del tempo è essenziale. Se si continua a impedire di leggere Heidegger trattandolo da nazista non avremo fatto neanche un passo nella direzione del problema (Emmanuel Faye ha da poco pubblicato un volume, titolato Heidegger, l'introduction du nazisme dans la philosophie, relativo agli anni del rettorato di Friburgo, che sta suscitando un vivace dibattito, ndr). Per quanto riguarda la mia esperienza, devo considerare il fatto che sono «gettato» in questo mondo non in un momento qualunque, né in un luogo qualunque, e provo quindi una violentissima preoccupazione per il tempo. Il tempo lo scopro nell'esercizio del linguaggio, nella possibilità di ascoltare e di sapere ciò che si ordisce dietro le parole. Heidegger si è espresso molto bene a questo proposito, e qui dovremmo riallacciarci idealmente a Sterne: «la lingua è più pensante di noi». Detto altrimenti, se voglio interrogare il modo in cui il mio corpo vive realmente nel tempo sono costretto a constatare che gli è impedito realmente di vivere nel tempo dal chiacchiericcio e dal rumore, dalla comunicazione accelerata, dall'impoverimento del vocabolario, dalla farsa sociale e dalle menzogne individuali. La letteratura si occupa di questo, da sempre. Ma occuparsi del tempo vuol dire occuparsi della vita del corpo, dei cinque sensi e dunque porsi radicalmente la questione della sessualità. È di questo che parlano i miei libri: non di ossessione sessuale, ma esattamente del contrario. Interrogo la sessualità in quanto legata al tempo, sia che ci si trovi in un tempo di depressione, sia che ci si trovi in quel tempo corto e lungo insieme che è il tempo del desiderio e della jouissance. Viviamo in un tempo di evacuazione del corpo, in una sorta di usura e di dispersione di tutti i nostri sensi. Il mio prossimo libro sarà ancora legato a questo tema, prendendo spunto da Nietzsche. Per lavorarci ho cercato di vivere sperimentalmente la questione dell'eterno ritorno. Ma, proprio quando mi pongo la questione del tempo, divento refrattario al tempo sociale, al tempo mediatico e all'eterno presente che, in fin dei conti, finisce per distruggersi da sé. Tornando alla citazione di Sterne, direi che la mia vita si modifica e guadagna tempo rispetto a quello che sto scrivendo, ecco la questione. Detto altrimenti, vivo in funzione di ciò che sto pensando mentre scrivo. Non mi trovo mai in un tempo morto e di scissione, in un tempo di non libertà. Riferendosi ai suo romanzi, Roland Barthes parlava di una contestazione rivolta a «un uso proprio del linguaggio letterario, quello della rappresentazione». Con i lavori successivi al 1980 - data che chiude l'esperienza di «Tel Quel» e prelude a un ultimo testo sperimentale, Paradis - sembra che lei abbia voluto concedere molti più appigli al lettore rispetto al passato, abbracciando proprio le forme più convenzionali di rappresentazione. Tra le numerose riserve che le vengono mosse, la principale riguarda proprio questa sua «resa incondizionata ai contenuti» del discorso. Cosa ne pensa? In effetti, Paradis è il punto esatto in cui sposto il mio dispositivo, tuttavia conservandolo. Pensi a Picasso: è un autore che ha mantenuto fino alla fine la sua anima di sperimentatore cubista, ma a un certo punto ha capito che bisognava ritornare alla figurazione. Non per tornare al passato, ma per trovare un altro modo di trasformare la figurazione stessa e restituirla sotto una forma aggressiva e critica. In effetti, i libri che pubblico ora sono di tipo diverso rispetto al passato. Donne (trad. di Paola Barone, Tullio Pironi editore, 1993), per esempio, riflette sui nuovi rapporti tra i sessi, così come si stanno sviluppando dopo la rivoluzione dei costumi degli anni `70. Riapritelo e vedrete che è il solo, probabilmente, a registrare questo cambiamento con un massimo di pertinenza critica, di lirismo e di sarcasmo. È un problema di contenuti quello che si presenta in un preciso momento, ma questo «problema» viene svuotato e contestato dalla scrittura minimalista che, in fin dei conti, non è che nichilista e non fa altro che descrivere l'imbarazzo di un soggetto in una situazione dove la storia tende lentamente a dissolversi. Nei miei libri troverete comunque una attitudine all'aggressività, ma gioiosa, positiva, ironica. Evidentemente, l'ironia non è compresa e non ce la possiamo più permettere in questi tempi oscuri. In alcune situazioni e in certi personaggi dei miei lavori successivi a Paradis si possono ritrovare cose che attengono, al contempo, a una «arte del vivere» estremamente precisa (formazione di società clandestine e di piacere, arte di vivere negli intervalli che ci concede questa società soft, ma totalitaria) e a una critica molto ferma sui nodi essenziali della nostra epoca: dalla biotecnica, alla genetica, dalla clonazione all'utero artificiale. Nodi ripresi, per esempio, da Michel Houellebecq con Le particelle elementari.

Il suo lavoro critico è sempre stato molto trasversale. Sia con «Tel quel» che con la sua nuova rivista, «L'Infini» lei si è impegnato molto per la rivalutazione di testi lasciati spesso ai margini del milieu letterario. Uno di questi testi riguarda le Lezioni sul non-sapere di Bataille, un altro particolarmente importante consiste nelle note «sul materialismo assoluto» di Antonin Artaud...

Ci sono voluti quarantaquattro anni perché, dopo la sua morte, Bataille entrasse nella Pléiade, per Artaud cinquantasette anni non sono bastati. Questo significa che se, su questi e altri nomi, non ci fosse stata la pressione costante di una esigua una minoranza - di cui mi onoro di aver fatto parte - forse tutti questi materiali sarebero andati persi. Per quel che riguarda Artaud, sono il solo a essere stato condannato da un tribunale francese per aver pubblicato alcuni estratti dalla sua straordinaria conferenza al Vieux-Colombier; ma andava fatto, era troppo importante. Ricordiamoci che in Francia ci sono tre scheletri nell'armadio: il collaborazionismo del governo di Vichy, la guerra d'Algeria - ma dire che sia stata una guerra non si può - e il Sessantotto. È stata una rivoluzione quella del Sessantotto, o no? Ecco gli spettri che minacciano la tranquillità dei francesi e il resto viene di conseguenza. Artaud c'entra anche con tutto questo, perché la sua è una opera essenziale che tratta dei rapporti tra il corpo e il linguaggio. E lui è il rappresentante di questa lotta: parla, mettendo in gioco uno humour radicale, «nel nervo stesso della sua lingua». Ma bisogna ascoltarlo bene - cosa che, d'altronde, va fatta anche con Joyce e Céline - ascoltarne la voce registrata nel 1948 per la trasmissione radiofonica Per farla finita col giudizio di dio. La scuola, la fecondazione in vitro, il lavoro: Artaud ci parla della fabbricazione di corpi adatti al mercato e alla guerra, ecco il problema. Il suo è un pezzo di storia contemporanea condotto - seguendo un registro inaudito che forse solo i musicisti potrebbero comprendere - nelle viscere del linguaggio.

Al pari dei romanzi, anche i suoi saggi non vengono considerati molto in linea con l'immagine che si aveva di lei negli anni `70. Si è mai chiesto il perché di questa scarsa indulgenza nei suoi confronti?

Nei saggi ho cercato di operate una rivalutazione lenta di tutto ciò che si può dire, in modo nuovo, sulla letteratura o sul pensiero attraverso la letteratura o sul pensiero della letteratura. Con Barthes ci eravamo posti il problema dell'ignoranza crescente, che mette nelle condizioni di non trovare più punti di riferimento. In questo periodo di transizione e di mutazione bisognerebbe riscrivere l'Enciclopedia. Continuo a scrivere romanzi che possiamo chiamare filosofici, secondo quella che è una grande tradizione francese. Così, in un momento in cui i saperi vacillano e nessuno è più sicuro di nulla, proseguo imperterrito nel mio progetto da enciclopedista. È un lavoro molto interessante quello che mi fa entrare in uno «spazio enciclopedico»: non lo faccio certo alla maniera del diciottesimo secolo, anche se tengo conto di quell'epoca storica come di una leva estremamente importante per far sorgere qualcosa di libero e di nuovo. Il diciottesimo secolo non è dietro di noi, ma ci sta davanti. Rispetto al secolo dei lumi, noi oggi siamo in ritardo. Questo mio doppio movimento non rappresenta, però, un ritorno al passato. Chi dice questo è un avversario. E se lo dice è perché si sente minacciato nei suoi argomenti dalla visione del mondo positiva che io cerco di argomentare. Una visione estremamente affermativa, che permette il sarcasmo, l'ironia, l'autoironia e la libertà rispetto ai pregiudizi e alle alienazioni del mio tempo. Come vede non c'è autore più impegnato di me. Eppure, le critiche più severe, più violente, mi vengono spesso da sinistra. Da un certo punto di vista, comprendo che mi si consideri un reazionario mediatico, un «passatista». Ma al pregiudizio personale segue il rifiuto per i problemi che pongo sul piatto. Propongo di ritornare al dibattito ideologico, non certo a un discorso sulla mia persona, e nonostante questo subisco continue accuse di narcisismo. La mia è una posizione molto politica e come tale va trattata.

Philippe Sollers

(Ha collaborato alla traduzione Giuliana Prucca)

 



 

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